La scarsità di serotonina e l’eccedenza nell’uso delle benzodiazepine mi avevano portato a un passo dalla follia. La depressione è come una corazza di dolore, talvolta. Altre volte, è il contrario. Ti fa vibrare l’interno della pelle per venti gelidi, fino a ucciderti.
L’anno scorso sul Messaggero, Luca Ricci, parlando dei Diabolici misconosciuti della letteratura, inseriva tra i grandi sottovalutati viventi Franz Krauspenhaar: «ha fatto autofiction quando l’autofiction non esisteva come moda editoriale». Giudizio condivisibile che merita una postilla: Krauspenhaar è anche valido poeta. Accostando l’orecchio al suo nuovo romanzo, Grandi momenti, che esce oggi per Neo Edizioni, si sente in più punti la fertilità della vena lirica, il gusto per la similitudine, per la centralità dei simboli e per le forti coloriture fonetiche: «Il rumore nell’abitacolo è sempre assordante, come se un allevamento di rane si fosse abbarbicato tutt’attorno alla carrozzeria».
Autofiction o meno, al centro di Grandi momenti c’è Franco Scelsit, scrittore vizioso e di grande talento che però deve la propria ricchezza a gialli dozzinali, pubblicati dietro pseudonimo con un editore «da autogrill» e con protagonista l’investigatore Stan Dolero. Il motore di partenza della storia è la malattia – un infarto – che a cinquant’anni impone a Scelsit di rivedere la vita a partire dal rapporto con il tempo e con i ricordi, due cardini su cui si poggia la costruzione dell’identità. All’azzeramento dell’arresto cardiaco segue lo spaesamento della convalescenza :«Da quanto tempo sono in quest’ospedale, cinque giorni a settimana? Dai primi di novembre? No, credo prima», «il tempo è evaporato ed è rimasto il reperto ancora illeso. Il tempo ti ammazza. Il tempo bara sull’età».
Le giornate sono così scandite dal tempo della «rincorsa», seppure in una Milano che appare ferma, morta nei suoi ritmi sempre uguali e mediocri. Rincorsa ai desideri, innanzitutto, sempre con vitalità estrema, ora veemente ora malinconica e disperata, come per un animale ferito che si dibatte in una gabbia con la consapevolezza di poterne uscire solo da morto, e che, pur sapendolo, non riesce a fare a meno di dibattersi. La vana rincorsa si proietta poi simbolicamente nella passione per le auto, l’ebbrezza della corsa veloce e la distruzione del veicolo, inutile feticcio che mai dominerà fino in fondo il tempo e lo spazio:
Sono io, quella Jaguar. Invece di uccidermi come essere umano, mi uccido come automobile da sogno. Sogni che sono diventati incubi. La mia vita nuova è già vecchia e ingombrante. Ancora pochi giri delle ruote, sopra la polvere, prima del burrone. Poi, cade, rotola, si sfascia in un rumore sordo, plana con il tettuccio per terra. Barcolla, quasi si ferma. Esplode.
Nel raffigurare queste tensioni Krauspenhaar sa essere implacabile, lavorando sull’autobiografismo delle passioni. Ne viene fuori un personaggio alfieriano cui un fato beffardo – o una caterva di errori – ha negato il palco della tragedia, lasciandolo dietro le quinte: innegabilmente fuori posto, eppure mai privo di una fierezza di fondo. Una tensione che si scorge nitida nell’eros, dove gli estremi sono la volgarità sprezzante, anche violenta («Questa, se va avanti così, si piglia una ginocchiata in culo») e il lucido disincanto: «in me non ci sono le condizioni oggettive per essere amato da qualcuno. Perché l’amore, laddove esiste, è una cosa seria. E io sono un clown senza più voglia di ridere».
Se il tempo esteriore è scandito da «cardiopizze», editori impossibili da non odiare, corse a folle velocità e donne che non lasciano traccia, non resta che passare alla dimensione della memoria, dolente ben prima dell’infarto, che dunque ne innesca fino in fondo la crisi. Pur non avendo problemi economici, Scelsit vive ancora con la madre – «il colonnello» – e il fratello pittore, in una casa dominata dal fantasma paterno, rimasto ucciso al confine con la Jugoslava dopo essere fuggito coi soldi sottratti alla finanziaria per cui lavorava. La crisi prende la forma – e il simbolo – di momenti allucinatori crescenti: voci che non sono dove dovrebbero, immagini, finché Scelsit non sprofonda a rivivere il proprio passato e vite ed epoche estranee, calandosi così in quel «cratere» di cui all’inizio di Grandi momenti aveva presagito la presenza:
Nonostante i lutti, le umiliazioni, gli insuccessi e anche i successi, io non vedo, in fondo, nient’altro che un cratere. Nemmeno grande: un cratere seminascosto in mezzo alla campagna. E nessuno tranne me si accorge di quel cratere. La verità è questa.
Questa discesa, che è anche un superamento della coscienza, così come siamo abituati a intenderla e viverla, è per l’appunto intervallata dal confronto con la figura paterna, negli episodi della lepre: inizialmente è un ricordo dell’animale, incontrato di notte, in auto («gli ho tagliato il corpo con la luce dei fari») mentre fugge nella sua tana, e la sensazione che collega l’animale al padre. Poi ritorna in un duplice incontro, quando già si è oltre il confine tra percezione certa e allucinazione: la lepre sfreccia a margine di un padiglione, mentre Scelsit si trova a Torino per presentare un libro, ed è infine investita da Scelsit mentre guida l’ennesimo bolide. Da quello schianto di simboli e temi, in un universo poetico dove qualunque trascendenza è tagliata fuori, l’unica rotta possibile è quella di abbracciare fino in fondo quella che per il fratello è follia, ma che per Scelsit è una radice salda come una quercia, forse l’unica rivolta che gli resta, prima della morte: «Io sono qui, dentro di me, che abbraccio questa mia quercia che è parte di me. E finalmente la paura svanisce».
Se in Le monetine del Raphaël, attraverso il pittore Fabio Bucchi, Krauspenhaar aveva narrato l’epopea craxiana, in Grandi momenti lo scrittore si concentra sull’inconsistenza del presente e sulle proprie ossessioni – su tutte, la paura della morte. Una lotta a perdere sul cui esito Krauspenhaar non si illude, né vuole illudere il lettore, ma è proprio attingendo a questa spietata, dolorosa certezza che riesce a esprimere la grandezza della propria scrittura.
(immagine articolo Via)
Romanzo
Neo Edizioni
cartaceo
160
Progetto grafico: Toni Alfano
28/04/16
Krauspenhaar ha l'implacabile capacità di raffigurare le ferite dell'animo e le traiettorie vane dei desideri umani.
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Una laurea in Lettere moderne e un dottorato in Italianistica all’Università di Perugia, lavora nella comunicazione digitale. Suoi testi sono stati pubblicati su Scrittori precari, MilanoRomaTrani, RiotVan e Umbrianoise.
Ha pubblicato il racconto “Dizionario_del_diavolo.net” nell’antologia “Rien ne va plus” (Las Vegas Edizioni, 2009) e il romanzo “I giorni della nepente” (Editrice Effequ, 2015).